Mai come ora avvertiamo l’incompiutezza delle parole. Certo, le parole possono confortare, consolare, divertire, ma non contengono la forza emotiva di un abbraccio, la complicità d’animo di una vera stretta di mano, la compassione di una sana pacca sulle spalle. Ci mancano i gesti, ci manca il contatto. Dove è finito il corpo? Abbiamo paura del nostro, che possa ammalarsi; ci teniamo alla larga da quello altrui, possibile(?) minaccia. Invisibile a noi stessi e agli altri, come un fantasma vestito che vaga in tempi e spazi indefiniti. Non ci manca tanto la palestra, il pallone, il canestro: ci mancano il cinque alto dopo un assist, il pugno stretto dopo una buona giocata, le braccia larghe per sancire l’impotenza, le spalle che si appoggiano sul petto del difensore per prendere posizione, l’abbraccio iniziale durante l’inno o finale dopo una vittoria sudata, le mani sul volto dopo una sconfitta evitabile, il saluto al pubblico nel cerchio di metà campo, la stretta di mano con gli avversari ( che poi tanto avversari non sono ) e con gli arbitri. Tutto questo manca. Mai come adesso scopriamo che il gioco virtuale, non più ‘gioco’ ma forzata abitudine, non può soddisfare l’atavica necessità di mettere muscoli, ossa e tendini nelle nostre azioni. C’è un desiderio: quando tutto finirà, perché questa cosa finirà, si possa guardare questi aggeggi tecnologici per ciò che effettivamente sono: un mezzo, uno strumento, nulla più. E che si possa davvero riscoprire la forza vitale che ci spinge ad incontrare gli altri, fatta di cuore, gambe, testa, mani. Nessuna emozione potrà mai sostituire dieci corpi stesi a terra avvinghiati in un unico abbraccio nel gridare al mondo la felicità. Nulla può sostituirsi al corpo. Tantomeno le parole.